Martedì, 29 Agosto 2017 21:44

L'Aquila, si chiude la 723^ Perdonanza. Biondi: "Città ha bisogno di concordia"

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Con la chiusura della Porta Santa, è andata in archivio la 723^ edizione della Perdonanza Celestiniana.

Al termine della funzione religiosa, monsignor Giuseppe Petrocchi - arcivescovo metropolita dell'Aquila - ha annunciato l'indizione dell'Anno Mariano che terminerà nel 2018 con la consacrazione della Diocesi alla Madonna di Fatima di cui quest'anno ricorre il centenario delle apparizioni. "Nel 2017-2018, a Dio piacendo, si svolgerà la 'Peregrinatio Mariae' in tutte le Foranie della Diocesi", ha spiegato Petrocchi. "Questo cammino si concluderà con la solenne consacrazione alla Madonna della Città e dell’intero Territorio. Nel periodo 2018-2019 vivremo, come Chiesa, l’esperienza di metterci, con una speciale intensità, alla 'Scuola di Maria', Maestra nel testimoniare e donare il Vangelo. L’umile Vergine di Nazareth ci sarà Compagna e Guida nel percorrere le vie della misericordia e della comunione. Lei, Modello di santità, Donna della Pasqua e Madre dell’unità ci aiuti ad essere Chiesa missionaria, che testimonia sempre e ovunque l’Amore di Dio, specie nelle “periferie esistenziali” della nostra società".

Nel discorso che il sindaco dell'Aquila, Pierluigi Biondi, ha tenuto in occasione della funzione liturgica di chiusura della porta, ha sottolineato come la città abbia bisogno "di concordia, unità, lungimiranza. La nostra comunità è spesso dilaniata, in tutte le sue componenti, persa in polemiche che, il più delle volte, hanno il solo scopo di portare un po’ di insperata visibilità a chi le persegue. Non è così che possiamo pensare di ricostruire la nostra Città, le nostre vite e la nostra economia. Divisi siamo persi, fragili, attaccabili", l'appello del primo cittadino.

 

Di seguito il discorso del primo cittadino:

Sta per concludersi la 723esima edizione della Perdonanza Celestiniana

Una manifestazione che è, sempre di più, festa di popolo: un evento caro tanto all’universo laico quanto a quello religioso, per i profondi valori che incarna e testimonia.

Valori legati, in primo luogo, alla figura straordinaria di Celestino V e al suo messaggio di speranza legato al documento da cui le celebrazioni prendono nome e spunto: la Bolla del Perdono.

Un’indulgenza concessa agli ultimi della terra, ai poveri e ai bisognosi, e affidata alla Municipalità aquilana che, da allora, la custodisce con orgoglio e con amore profondo.

Un evento che la città celebra attraverso la Perdonanza Celestiniana, manifestazione che, negli anni, ha visto la presenza di figure quali Madre Teresa di Calcutta, il Dalai Lama ed Ela Gandhi, nipote ed erede spirituale del Mahatma.

Oggi intendiamo riportare la Perdonanza ai valori di una spiritualità profonda, anche laica, quale momento di riflessione e di raccoglimento.

Nel mio intervento in apertura della manifestazione, prima dell’accensione del tripode davanti la basilica di San Bernardino, ricordavo l’importanza della riconciliazione, del superamento di steccati e divisioni pregiudiziali.

La Città dell’Aquila ha bisogno di questa concordia, di questa unità, di questa lungimiranza.

La nostra comunità è spesso dilaniata, in tutte le sue componenti, persa in polemiche che, il più delle volte, hanno il solo scopo di portare un po’ di insperata visibilità a chi le persegue.

Non è così che possiamo pensare di ricostruire la nostra Città, le nostre vite e la nostra economia. Divisi siamo persi, fragili, attaccabili.

Uniti siamo la Città dell’Aquila, tante volte distrutta e altrettante riedificata, città di cultura e patria di talenti, capace di rialzarsi sempre.

Questa è L’Aquila, capoluogo d’Abruzzo, e questi sono gli aquilani. Sono i volti che ho visto e che vedo, anche stasera, pieni di fierezza e di fiducia.

Io sento che, se sapremo riscoprire la determinazione e il dovere di procedere e di lavorare insieme, uniti dal comune obiettivo della rinascita, potremo riavere finalmente, in breve tempo, la nostra Città amatissima, che tanto ci manca, potremo rivedere, finalmente, le sue cupole, le sue strade, i suoi palazzi.

Soprattutto potremo tornare a respirare la sua vita, quella che animava i vicoli e le piazze.

Una Città, la nostra, che ha saputo meritare il titolo e l’appellativo di “Città della Pace” e, allo stesso tempo, ha saputo combattere e lottare, nel corso della sua lunga storia, per difendere la sua libertà, la sua indipendenza, il suo ruolo.

Dall’atto stesso di fondazione, nato da un desiderio di indipendenza e di emancipazione degli aquilani, alla strenua resistenza agli assedi, dalle rivolte al dominio spagnolo, di cui il Forte Cinquecentesco è emblema e monito, alle lotte per la difesa del capoluogo, fino alle recenti manifestazioni, dopo il sisma, per ottenere ciò cui avevamo diritto, gli aquilani hanno dimostrato di aver preso dall’esempio di Celestino l’attaccamento ai valori della Conciliazione e del Perdono e, al contempo, la forza di resistere.

Come si legge nell’Ecclesiaste: “Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. C’è un tempo per nascere ed uno per morire, un tempo per piantare e uno per sradicare, un tempo per demolire e uno per ricostruire, un tempo per abbracciare ed uno per astenersi dagli abbracci, un tempo per gettare sassi ed uno per raccoglierli, un tempo per la guerra e un tempo per la pace”.

Siamo qui in pace ma non abbiamo paura di fare una guerra metaforica, civile e pacifica, per reclamare il diritto di vivere a pieno la nostra città.

In chiusura del mio intervento desidero rivolgere un sentito ringraziamento a quanti hanno lavorato a questa edizione.

In primis a tutti i membri del Comitato Perdonanza, al coordinatore Alfredo Moroni, all’assessore alla Cultura Sabrina Di Cosimo, all’assessore alla Sicurezza Emanuele Imprudente e a tutti gli altri componenti della giunta, ai dipendenti comunali, instancabili e professionali, a Sua Eminenza il cardinale Gualtiero Bassetti, al rappresentante del governo, sottosegretario di Stato alla Difesa Domenico Rossi, alla Curia Aquilana, in particolare a Sua Eccellenza l’Arcivescovo dell’Aquila Monsignor Giuseppe Petrocchi, ai vescovi che hanno concelebrato la Santa Messa dell’apertura della Porta Santa, alla Polizia Municipale, all’Asm, all’Ama, alle città gemellate, al corpo nazionale dei Vigili del fuoco, alle forze dell’ordine e ai corpi armati dello Stato, alle associazioni di volontariato, alla Protezione civile e alla Croce rossa, alla Banca d’Italia e alla Banca di credito cooperativo, alla Fondazione Carispaq, a Eni, alla Siae, al Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, alla Soprintendenza ai beni archivistici e all’Istituto centrale del restauro, al Polo museale, a quanti hanno preso parte al Corteo della Bolla, sia nella parte storica che in quella civile, alle municipalità della città-territorio a tutti gli artisti che hanno animato il programma della Perdonanza, alla stampa, a tutti gli sponsor, ai sapienti coniugi artigiani Laura Caliendo e Gabriele Di Mizio per aver realizzato la Croce del Perdono donata al cardinale Bassetti, a tutte le aquilane e tutti gli aquilani che continuano a dimostrare di amare questa celebrazione e questa città, dandovi appuntamento al prossimo anno.

 

Qui, l'omelia pronunciata dall'arcivescovo Petrocchi

Nel proporre alcune riflessioni sulla Perdonanza, quest’anno, vorrei sostare su un passaggio fondamentale, contenuto nella preghiera del Padre nostro: quello in cui chiediamo «rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori». È proprio su quel “come” che vorrei fissare un’ “attenzione meditativa”.

Poiché ci rivolgiamo al Padre celeste, ogni volta che recitiamo questa preghiera noi Gli chiediamo la grazia di essere pronti a perdonare gli altri, con la generosità con cui Lui perdona noi. Perdonare vuol dire amare con l’amore di un padre, che, se autentico, è sempre riflesso dell’amore del Padre che è nei cieli (cfr. Ef 3,15).

Vorrei proporvi alcune brevi considerazioni su diversi aspetti che caratterizzano l’amore di un padre: si tratta di “flash” comunicativi che ogni papà comprenderà, non solo per immediata convergenza intellettuale, ma per una profonda consonanza del cuore.

Il padre: ama per primo. Non solo perché ha generato il figlio, ma perché continua a fargli dono della propria vita, durante l’intero arco della propria esistenza. Vale, in questo caso, un “principio di identità” permanente: il padre è e rimane sempre padre; e il figlio è e rimane sempre figlio. C’è una “asimmetria relazionale”, costitutiva e feconda: guai se il padre smettesse di fare il padre, diventando fratello – o peggio - figlio del figlio; come sarebbe un “disastro parentale” se il figlio si mettesse a fare il padre del padre.

Il padre ama il figlio più di sé: per questo ama anche se non è riamato. Un padre ama senza condizioni. Nessun evento, per quanto negativo e drammatico, può soffocare l’affetto che arde nel cuore di un padre. È scritto nella Bibbia: «le grandi acque non possono spegnere l’amore, né i grandi fiumi travolgerlo» (Ct 8,7).

Dunque: un padre ama al di là di tutto; ama nonostante tutto; ama sempre, qualunque cosa accada! Altrimenti, non sarebbe un “papà”, ma solo uno che ha messo al mondo un bambino. Infatti, non basta essere genitore, per diventare padre! Questa “titolarità” si guadagna attraverso un “iter oblativo” che si snoda per l’intero arco della vita. Chi è padre, è padre per tutte le stagioni.

Il padre è il primo maestro del figlio: gli insegna l’arte di vivere. Di conseguenza ha il compito inalienabile di consegnare al figlio “mappe esistenziali”, che gli consentano di orizzontarsi nella storia che deve affrontare. Gli dice la verità, talvolta senza anestetici, ma non gliela spara contro. La offre con autorevolezza, ma sa aspettare con pazienza le stagioni favorevoli della vita, per veder germinare il seme che ha sparso con cura.

Ricordiamolo: un padre educa non solo attraverso ciò che dice e ciò che fa, ma anzitutto attraverso quello che è. Per questo uno studioso della personalità ha scritto: «i figli di tutte le età hanno una cosa in comune: chiudono le orecchie ai consigli ed aprono gli occhi agli esempi».

Il padre corregge, ma, in ciò che dice e che fa, cerca solo il bene del figlio. È simile all’agricoltore che pota l’albero perché si sviluppi armonicamente e porti più frutto, ma non lo abbatte, né lo colpisce con furia. Agisce con fermezza, senza diventare aspro e rigido: dice “sì”, ma possiede pure il coraggio del “no”; condivide con gioia, ma è anche capace di dissentire, con onestà morale. Rimane sempre il migliore alleato del proprio figlio. Si adopera incessantemente perché il figlio diventi ciò che deve essere.

Il padre accompagna il figlio e lo affianca: è attento a custodirlo e pronto a difenderlo. Se arriva la bufera, rimane lì: non scappa. Come un frangiflutti, sa resistere alle onde che gli si abbattono contro. Fino a che torna la quiete, dopo la tempesta. Il figlio sa di poter contare sempre sull’aiuto del padre.

La gioia più grande di un padre è guardare un figlio che cammina, contento, nella direzione giusta; oppure, se lo vede riprendere la strada dritta, dopo che si era smarrito in quella storta (cfr. parabola del figliol prodigo: Lc 15, 11-32); così come la tristezza più graffiante la prova nel saperlo impantanato nei guai e destinato a rimanere nella palude.

Se mi fosse chiesto: «qual è un “criterio sicuro” per “misurare” l’amore?», non esiterei a rispondere: «la disponibilità a soffrire, per il bene dell’altro». So che questa affermazione si muove “controcorrente” rispetto ad una cultura egocentrica, che tende a rottamare il sacrificio, ritenendolo sempre e comunque un attentato al benessere della persona.

Invece, è proprio il fatto di amare - quindi di prendere a cuore la sorte dell’altro - che espone alla sofferenza. E nella successione delle “vette” di dolore, che proprio l’amore solleva, la cima più alta è costituita dalla pena sconfinata che avvolge i genitori quando perdono un figlio. Si tratta di un dolore “estremo”, perché scaturisce da un “amore totale”. So che diversi di voi hanno toccato questo culmine. In verità, poiché questo dolore si chiama amore, è sacro e sempre misteriosamente fecondo. Infatti, l’“amore-crocifisso”, se vissuto nel Signore, è destinato a diventare “amore-risorto”: per sé e per gli altri!

Quelle che ho sinteticamente enunciato, sono alcune note che compongono la “sinfonia della dedizione”, che ogni cuore di padre esegue, giorno dopo giorno, con passione.

Percorrendo, con coerenza evangelica, la preghiera del “Padre nostro”, giungiamo allora ad una conseguenza chiara e vincolante: “come” il Signore si prende cura di noi e ci usa misericordia, “così” anche noi dobbiamo servire e perdonare il nostro prossimo, con un amore che ha “tratti paterni”. In altri termini: siamo chiamati ad amare con lo stesso Amore con cui siamo stati amati. È Gesù che ci assegna questa misura, quando afferma: «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48). Abbiamo tutta la vita per avanzare, gradino dopo gradino, sulla scala della santità, che conduce a questa meta.

Molti, forse, potranno obiettare: è una impresa troppo alta per noi: va oltre le nostre forze! Non ce la faremo mai! E sarebbe davvero così, se fossimo abbandonati a noi stessi. Ma il Signore è venuto in mezzo a noi per rendere “possibile l’impossibile” e farci capaci di compiere, insieme a Lui, ciò che, da soli, non saremmo mai in grado di fare.

Per il dono della grazia, la fedeltà al Vangelo è alla nostra portata e possiamo amare tutti, mossi da una “paternità universale”! I santi, che hanno raggiunto la pienezza della carità, ne sono la prova sicura e attraente! Celestino V ha composto la bolla del Perdono proprio perché è stato un Papa veramente padre: cioè, un “Papa papà”!

La versione del “passo del perdono”, contenuto nella preghiera del Padre nostro - che ho velocemente commentato - può, dunque, essere compendiata nel modo seguente: “Come Tu perdoni me, così anch’io voglio perdonare gli altri”. Ma c’è un’altra interpretazionedella stessa frase, che può essere sintetizzata in una formula diversa: “Come io perdono gli altri, così anche Tu perdona me”. In questo caso il “come” assume una “valenza autoreferenziale”, poiché ciascuno di noi si pone come polarità di riferimento nel “calcolo” del perdono, dato e ricevuto. Così l’atteggiamento che abbiamo verso gli altri diventa il piatto della bilancia che pesa anche noi stessi. In tale prospettiva, sarebbe opportuno che facessimo un serio esame di coscienza, prima di rivolgere all’Onnipotente questa invocazione. Infatti, se il nostro cuore - come un deserto affettivo - fosse arido di perdono, allora rischieremmo, senza avvedercene, di sottoscrivere la nostra condanna. Infatti, il Signore ci ha ammonito: «con la stessa misura con cui misurate, sarete misurati anche voi» (Mc 4,24).

Vale perciò la pena di lasciarci trascinare dal richiamo coinvolgente di san Paolo: «in nome di Cristo siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2 Cor 5,20-21). Poiché Dio è ricco di misericordia, non abbiamo il diritto di essere avari di perdono: né verso gli altri, né verso noi stessi.

Dopo 723 anni di celebrazioni della Perdonanza, L’Aquila dovrebbe essere la Capitale del perdono e noi saremmo tenuti a diventare gli “alfieri della riconciliazione e della pace”. E il perdono è sempre conveniente e costituisce sempre una strategia lungimirante, che porta a grandi guadagni: rimuove barriere ingombranti e genera nuove opportunità di crescita; costituisce una scommessa sul futuro e rappresenta un investimento nel cambiamento positivo. La logica perversa di Erodiade e la pavidità complice di Erode Antipa, anche se sembrano temporaneamente prevalere, sono, sulle distanze, perdenti e si ritorcono rovinosamente contro chi le mette in atto (cfr. Mc 6, 17-29). Il perdono, invece, esprime la sapienza vincente di Dio: infatti, l’Amore ha sempre la meglio.

In continuità con la celebrazione della Perdonanza e nella ricorrenza del centesimo anniversario delle apparizioni di Fatima, annuncio che il 13 ottobre, nella nostra Diocesi, sarà solennemente avviato un Biennio Mariano. Nel 2017-2018, a Dio piacendo,si svolgerà la “Peregrinatio Mariae” in tutte le Foranie della Diocesi. Questo cammino si concluderà con la solenne consacrazione alla Madonna della Città e dell’intero Territorio. Nel periodo 2018-2019 vivremo, come Chiesa, l’esperienza di metterci, con una speciale intensità, alla “Scuola di Maria”, Maestra nel testimoniare e donare il Vangelo. L’umile Vergine di Nazareth ci sarà Compagna e Guida nel percorrere le vie della misericordia e della comunione. Lei, Modello di santità, Donna della Pasqua e Madre dell’unità ci aiuti ad essere Chiesa missionaria, che testimonia sempre e ovunque l’Amore di Dio, specie nelle “periferie esistenziali” della nostra società.

È in questo orizzonte che sento, come Vescovo, di rivolgere un augurio “da padre” alla nostra Città e alla sua gente. Il Signore ha posato su di te il Suo sguardo e ti ha accompagnato sempre con la Sua tenerezza. Nel corso della storia ha permesso che tu fossi visitata da grandi sofferenze, ma ogni volta ti ha dato la forza per risorgere e ha fatto pulsare dentro di te una vita più grande e più bella di prima. Molti eventi, anche catastrofici, ti hanno fatto guerra, ma non ti hanno vinto, perché - come abbiamo ascoltato dal profeta Geremia - Egli era con te per salvarti (cfr. Ger 1,19).

Ti ha donato una schiera di santi, che rappresentano la tua corona di gloria, e ha acceso, tra le tue mura, grandi ideali: cristiani e umani. Perciò, con la fierezza e l’audacia, che ornano la tua anima, apri le tue ali al vento dello Spirito, e torna a volare alto, L’Aquila! Amen.

Ultima modifica il Martedì, 29 Agosto 2017 22:44

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